UN PROCESSO CHE CI INTERROGA

Riflessioni sul commento di Alberto Maggi al Vangelo della Passione



"Gesù non è morto per i nostri peccati e tantomeno perché questa fosse la volontà di Dio, ma per l’avidità dell’istituzione religiosa, capace di eliminare chiunque intralci i suoi interessi, fosse pure il Figlio di Dio…" è questa in sintesi la lettura che il teologo e frate dell’Ordine dei servi di Maria, Alberto Maggi da del sacrificio di Cristo. Pubblicata online sul sito “Il Libraio ha riscosso numerosi commenti da parte dei lettori, anche sulla pagina Facebook del teologo Vito Mancuso. Inevitabile pensare un collegamento tra i due teologi, i quali, nelle loro riflessioni, promuovono non solamente una teologia progressista, ma una lettura della sacra storia che scardina tutti i fondamenti e i presupposti dogmatico-teologici sui quali si fonda la fede cristiana. Al di là delle diverse affinità che possono emergere tra i due teologi, una domanda sorge spontanea: se la lettura del teologo Maggi corrisponde a verità, che senso dare alla morte di Gesù? Solamente un’esecuzione progettata e messa in atto da parte del potere religioso del tempo, il quale temeva di perdere forza? Inoltre che significato avrebbero le parole che Gesù pronuncia nell’orto dei Getsemani, “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42)?

  1. Gesù e i sacerdoti del Tempio
L’ostilità che Gesù avrebbe incontrato da parte dei sacerdoti del tempo è conosciuta e lo stesso Maggi fonda la propria lettura su due passi del Vangelo:
  1. “Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui…” (Gv 11,47), ovvero in quella pericope evangelica nella quale l’evangelista Giovanni ci racconta delle discussioni tra i Farisei e i sacerdoti sui miracoli che Gesù stava compiendo;
  2.  e in secondo luogo sul gesto rivoluzionario del Nazzareno di cacciare “violentemente” i mercanti dal tempio: “Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, dicendo: «Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!»” (Lc 19, 45-46). 
Passi che mettono in chiara luce come quel bambino che discorreva quietamente coi dottori del tempio (Mt 2,41-50), sia cresciuto e che il suo messaggio di amore e perdono si scontra inevitabilmente con la mentalità del tempo. Lo stesso Gesù, all’inizio del suo ministero mentre commentava il passo di Isaia 61 nella sinagoga di Nazaret, disse  “Nessun profeta è bene accetto in patria” (Lc 4,24), sottolineando come la sua predicazione non sarebbe stata accettata da tutti. Senza voler sminuire i dissapori che intercorrevano tra Gesù e i sacerdoti del tempio, a mio avviso non possiamo affermare che questi siano l’unica chiave di lettura della morte di Gesù. I sacerdoti, sordi alla predicazione di Cristo, lo arrestano come bestemmiatore e lo consegnano nelle mani dei romani chiedendo che venga messo a morte secondo la legge (Lv 24,11-14). Solo per odio e rancore, secondo Maggi, Cristo sarebbe stato condannato ed ucciso. Egli nel citare le parole del “pre-processo”[1] a Gesù, omette tuttavia un versetto fondamentale che da senso all’insieme:

Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 49-52). 

Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret, analizza la questione mettendo in guardia  da “una frettolosa condanna della prospettiva ‘puramente politica’, propria degli avversari di Gesù”[2], alla luce del fatto che la dimensione religiosa e politica al tempo (e non solo) non erano separate. “Gesù combatte - prosegue Benedetto XVI - contro l’egoistico abuso dell’ambiente del sacro (…): il vecchio culto del tempio di pietra è giunto al termine. È arrivato il momento della nuova adorazione di Dio in ‘spirito e verità’. (…) Gesù stesso deve attraversare la crocifissione per diventare, da Risorto, il nuovo Tempio”[3]. Cristo annuncia che bisogna separare la sfera politica da quella religiosa [4] e questo passo può essere compiuto solamente attraverso il dono totale di sé sulla croce. Che significato dunque assume la “profezia” di Caifa? “La croce - commenta Benedetto XVI - rispondeva ad una ‘necessità’ divina e Caifa con la sua decisione divenne, in ultima analisi, l’esecutore della volontà di Dio, anche se la sua motivazione personale era impura, non rispondente alla volontà di Dio, ma mirante scopi egoistici”. Se, come ci ricorda papa Ratzinger, alla base della discussione dei Farisei nel Sinedrio sta un motivo di odio “politico”, ciò che muove il sommo sacerdote a proporre la condanna di Gesù è, potremmo dire, una “ispirazione divina”[5]. La morte e la risurrezione di Cristo rientrano nel progetto divino di salvezza e lo stesso Gesù, come ricordavamo poc’anzi, era consapevole che doveva patire, diventando il servo[6] sofferente e in ultimo morire. La preghiera nel Getsemani è testimonianza della piena coscienza di Gesù e della sua totale adesione. 

E la questione dei peccati, come si risolve? “Nella passione di Gesù - scrive Benedetto XVI - tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l’immensamente Puro, con l’anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario (…). In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell’amore infinito”[7]. Il peccato, nella terminologia cristiana, rappresenta lo sporco personale, lo sporco del mondo, col quale ognuno di noi si macchia. Arcaiche immagini, potrebbe dire qualcuno, ma che descrivono appieno la condizione umana: l’uomo è una fragile creatura, imperfetta e non perfetta come il pensiero contemporaneo vorrebbe. Camminando lungo la via della vita, con la sua fragilità e imperfezione, l’uomo rischia di cadere macchiandosi con lo sporco di questo mondo. Il contemplare l’Uomo crocefisso ci porta a “contaminarci” del suo amore, a prendere coscienza del nostro sporco e a lavarci. La visione dell’Uomo della croce non porta ad un turbamento “psichico”, come afferma Maggi, ma un’analisi di sé, un ripensare se stessi in chiave umana e non “divina”. Non siamo super uomini, semi dei, ma solamente fragili ed imperfette creature, che vivono gioiscono e soffrono, lasciandosi interrogare da quel processo e quella morte che hanno cambiato il mondo. 

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[1] Mi riferisco alla riunione presieduto dal Sommo sacerdote Caifa nel Sinedrio, all’indomani dell’ingesso di Gesù a Gerusalemme a dorso di un’asino. 
[2] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, BUR, Milano 2012 p. 191
[3] Ivi, p.192
[4] “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, Mt 22,21
[5]  Bendetto XVI, ivi, p. 193
[6]  Si veda Is 52,13-53,12
[7] Benedetto XVI, ivi, p. 258

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