TRATTO DALLA
TERRA PER ESSERE IL SUO CUSTODE
“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse”[1].
È con questa semplice frase che la Bibbia, dopo aver descritto la nascita del
mondo per opera del suo Creatore, pone in luce quale sia il compito, il fine ultimo
dell’uomo sulla terra: essere il custode dell’intero creato. Un compito molto
semplice, perché, nell’ottica del redattore del libro sacro, tutto ciò che è
stato creato (umanità compresa) è cosa
buona[2].
Tuttavia l’umanità è venuta meno alla sua missione. Perché? Forse per pigrizia?
O per un senso di superiorità da parte dell’uomo?
Gli alibi dell’uomo
Come prima risposta qualcuno
potrebbe suggerire che il compito del primo uomo era quello di custodire non
l’intero creato ma solamente il giardino dell’Eden, quel mitologico paradiso
terreste ove l’uomo non doveva faticare per procurarsi la propria sussistenza
ne tanto meno soffrire a causa del Male che in esso non era presente.
Conosciuto il male e subita la condanna con la relativa cacciata dall’Eden,
l’uomo è stato posto nel Mondo, fuori dal giardino, in un luogo a lui ostile e
di fatica[3].
Tuttavia questa risposta sembra fin dall’inizio una scappatoia. O addirittura
una scusa per modificare e deturpare il mondo a proprio piacimento e a proprio
vantaggio.
Qualcun altro allora potrebbe
suggerire che, se si analizza il racconto della creazione, si può cogliere che
l’uomo è al vertice di tutto il creato, la creatura perfetta fatta ad immagine e somiglianza del suo
Creatore[4].
Questa sua perfezione, questo suo essere “onnipotente”, gli fornisce l’alibi
perfetto per non occuparsi della terra, ma tuttavia gli consente di modificarla
a proprio vantaggio. Questa ipotesi, per quanto appaia chiaramente una
scappatoia per non assolvere il compito affidato all’uomo, ci fa comprendere
come facendosi forte del suo essere “diverso” rispetto alle altre creature e al
contempo superiore perché simile a Dio, gli abbia permesso di fare della terra
ciò che meglio credeva. Se si scorrono le pagine della Bibbia ed in particolare
i libri del Levito e del Deuteronomio, ci si potrà facilmente accorgere che la
legge mosaica analizza fin nel dettaglio il rapporto dell’uomo con la terra, ed
in particolare con la terra da coltivare (anche in un’ottica di “proprietà
privata”). Le varie norme che regolano la semina e il raccolto sono fissate non
solo in un’ottica di sussistenza, ma anche di ringraziamento per i doni
ricevuti. Certamente il tutto è tenuto insieme (e per certi aspetti garantito)
da un personale e comunitario rapporto con Dio. L’ateo o l’agnostico potrebbero
sentirsi chiamati fuori da questo rapporto giuridico con la terra, eppure la
legge mosaica comprende anche i rapporti con i cosiddetti “gentili”, ovvero
coloro che non appartenevano al Popolo Eletto, e che tuttavia aveva diritto di
godere dei frutti della terra. In quest’ottica di un paradiso terrestre
riconquistato, o ricreato alla meglio da parte dell’uomo, difficilmente si
comprende come l’uomo abbia potuto dimenticare le sue radici con la terra e si sia permesso di deturpare il proprio
habitat.
Il superuomo divinizzato
Se penso all’uomo moderno,
all’uomo che inizia a lavorare nelle fabbriche, a creare i primi prodotti che
poi nella loro evoluzione sfoceranno secoli dopo nei prodotti di massa, mi
immagino un superuomo. Un uomo che
acquisisce un nuovo ruolo, una nuova visione di se stesso e delle proprie
possibilità e capacità, e quindi organizza il proprio essere e il proprio
vivere come se fosse lui ora il creatore del mondo. Certamente questo nuovo status,
non è vissuto dal semplice operaio, che
viene visto ed usato dall’industriale solamente come un “mezzo/strumento” per
raggiungere il fine desiderato, ma da colui
che fonda l’industria, la dirige e ne ha il maggior profitto. È questo
prototipo di superuomo che inizia sistematicamente a cambiare il volto del
mondo e della natura che lo circonda. Già nei secoli precedenti l’epoca moderna,
l’uomo aveva cambiato il paesaggio per poter sopravvivere pur senza intaccare
il genuino rapporto con essa. La sfida che gli si presenta ora è quella di
sfruttare al massimo il mondo che lo circonda e le sue risorse per poter
produrre sempre più su larga scala. Dietro al superuomo-industriale esiste però
una categoria di superuomo che potremmo definire divinizzata: gli scienziati. Lo scienziato moderno (e soprattutto
post-moderno) non si accontenta più di cercare di capire il mondo che lo
circonda catalogando le specie animali e piante, cercando di afferrare i
meccanismi della vita. Ora lo scienziato post moderno cerca di creare (ove
possibile) egli stesso la vita. Non è solamente un’idea romantica da romanzo
horror[5],
ma una realtà che soprattutto alla fine del XX secolo ha iniziato a compiersi.
Non solamente questioni legate alla nascita in vitro o alla clonazione di
esseri viventi, lo scienziato moderno gioca, nel suo essere superuomo divinizzato, ad essere Dio
controllando la vita umana, animale, vegetale e gli agenti climatici. La
scienza che sta vivendo in un’interrotta epoca d’oro, giorno dopo giorno conquista
un posto sempre più ampio all’interno dell’olimpo degli dei, a volte senza che
i rischi vengano debitamente calcolati. Sconvolgimenti naturali ed epidemie
sono sempre esistite nel nostro mondo, ma mai, come oggi forse sono causate
direttamente o indirettamente dalla mano dell’uomo. Esempio fra tutti il
surriscaldamento globale che ha portato col tempo ad un feroce cambiamento
climatico non solo nel nostro Paese ma in tutti i continenti. La mia non vuole
essere la solita predica moralista e bacchettona (forse anche un po’ bigotta).
Il mio intento vuole essere, anche alla luce di una rinnovata (o forse nuova) religiosità della terra, quello di porre
alla luce, sotto una chiave filosofica, la questione della terra e del rapporto
con essa soprattutto ora che l’uomo non sa più cosa vuol dire.
Vivere da terrestri
Il filosofo Duccio Demetrio
nella sua opera[6] e
nell’ultimo intervento al Caffè Filosofico di Crema, ci ha mostrato come tutti
(noi giovanissimi compresi) abbiamo un primo ricordo del nostro rapporto con la
terra, un ricordo che diventa (a mio avviso) il ricordo base per rapportarsi
con essa. Il cantautore Franco Battiato in una sua famosa canzone[7]
cantava la necessità fisiologica di dormire
per terra per non perdere il proprio contatto, il proprio rapporto con essa.
Battiato esprimeva questo suo rapporto
con la terra legandolo ad altre vite vissute (da lui o dai suoi antenati) in un
rapporto diretto e semplice con la madre terra, con quella terra dalla quale
siamo stati tratti. Duccio Demetrio dal canto suo ci ricorda che l’uomo, non
secoli fa ma solamente qualche decennio fa, sapeva stupirsi d’innanzi al
semplice canto degli uccelli, o al volo delle rondini che segnavano il cambio
di stagione. Ciò che l’uomo ha perso nella sua folle corsa a divenire un
superuomo divinizzato è per l’appunto questo stupore davanti al creato, questo
rapporto con la terra che lo rendeva umile davanti a ciò che è più grande di
lui. L’umano del terzo millennio, forte delle sue scoperte scientifiche e
tecnologiche, si sente superiore a tutta la natura che lo circonda definendo i
suoi simili che ancora vivono un genuino rapporto con la terra, primitivi. Non
sono un folle e non intendo dire che dovremmo realmente tornare all’età della
pietra, senza tecnologia e senza la scienza. Ciò che voglio suggerire è un
ritorno ad una visione antropologica dell’umano reale, ovvero vedere l’essere
per quello che è, una creatura piccola rispetto a tutto il creato (universo
compreso) dotata di un grande potenziale; e non un superuomo divinizzato. La
scienza stessa ed in particolar modo l’astrofisica ci suggerisce che noi siamo
solo un puntino nell’universo, che il nostro mondo è uno solo dei tanti nel
cosmo[8].
Noi siamo un granello di polvere che è stato tratto dalla terra (ădām) e alla terra dobbiamo tornare come
ci ricorda la Bibbia[9].
Questa realtà è valida tanto per i credenti quanto per i non credenti. La
responsabilità della custodia del giardino affidato ai nostri progenitori Adamo
ed Eva è eredità comune di tutta l’umanità. Come fare a curare questo nostro
mondo malato? Ascoltandolo, meravigliandosi di tutto il creato, come ci
suggerisce Duccio Demetrio. Noi siamo i custodi della terra perché da essa
siamo stati tratti e ad essa torneremo. E soprattutto perché è il luogo nel
quale viviamo. Giovani e meno giovani siamo ora chiamati tutti ad assolvere un
solo compito: vivere da terrestri[10].
[1] Gn 2,15
[2] Cfr. Gn
1
[3] “(…) maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. (…) Con il
sudore della frontere mangerai il pane, finché alla terra tornerai, perché da
essa sei stato tratto: polvere sei e polvere ritornerai.” Gn 3,17b-19
[4] Cfr Gn
2,27
[5] Esempio
fondamentale è Frankenstein di Mary
Shelly, dove nell’esperimento del dott. Victor Frankenstein di creare un uomo
(un nuovo uomo) con parti di vari cadaveri, viene richiamata l’opera creatrice
di Dio .
[6] Duccio
Demetrio, La religiosità della terra.
Raffaello Cortina 2013 Milano
[7] Mesopotamia
dall’album Giubbe Rosse (1988) Anch’io a guardarmi bene vivo da millenni e
vengo dritto dalla civiltà più alta dei Sumeri, dall’arte cuneiforme degli
scribi e dormo spesso dentro un sacco a pelo perché non voglio perdere i
contatti con la terra.
[8] Cfr.
Alex Vilenkin Un solo mondo o infiniti?,
Raffaello Cortina 2007 Milano
[9] In
merito si veda anche Gabriella Caramore, Se
il pensiero soffia dove vuole, in Jesus n°3 2014 anno XXXVI
[10] Terrestre = custode della terra.
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