II - Non
nominare il nome di Dio invano
Interrogati da un comandamento
La
scorsa settimana si sono svolte a Crema le giornate filosofiche, giunte ormai
alla decima edizione. Tema di Crema del Pensiero 2015 era il secondo
comandamento: “Non nominare il nome di Dio invano”. Vorrei, alla luce di quanto
si è discusso durante il weekend filosofico, proporre un commento al
comandamento che spero possa essere di aiuto alla comprensione di questa
Parola.
Punto
di partenza è la Sacra Scrittura, la dove possiamo ascoltare la voce viva di
Dio e dell’uomo:
“Non
pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà
innocente chi pronuncia il suo nome invano”. (Es 20:7; De 5:11)
Tradizionalmente
siamo portati a ritenere che questo comandamento indichi il divieto, la
proibizione, di pronunciare bestemmie. L’atto di invocare il nome di Dio
associato ad una imprecazione, non costituisce, ovviamente, una nostra forma di
lode e di ringraziamento, ma una maledizione, un’accusa a Dio per il male
ricevuto. È sorprendente notare come la bestemmia costituisca anche un intercalare
linguistico dialettale. Alcuni dialetti del nord-est italiano, infatti, utilizzano
la bestemmia come un semplice intercalare, come se fosse una parola qualunque. La
svalutazione linguistica, cioè la deprivazione del valore della parola
pronunciata, che la società contemporanea sta vivendo, porta a non ritenere
atto gravoso e degno di biasimo il pronunciare bestemmia. Persino qualora
fossero dei bambini a proferire una bestemmia, molti adulti non rimarrebbero
scandalizzati e tutt’al più reagirebbero con una risata. Anche questo modo di
reagire alla bestemmia, costituisce a mio avviso un altro segnale di perdita di
valori di cui la nostra società è affetta.
Fermo
restando che questa Parola indica che l’atto del bestemmiare costituisce
peccato, altri possono essere i “divieti”, gli atteggiamenti coi quali possiamo
contravvenire a questo comandamento. La cultura giudaica, ad esempio, ha
sviluppato lungo i secoli un profondo rispetto verso il nome di Dio. Il
tetragramma con in quale si indica il nome di Dio, YHWH, non viene mai
pronunciato da un ebreo osservate durante la preghiera in Sinagoga o qualora
appaia mentre viene letta la Sacra Scrittura. Infatti il lettore osserva una
pausa di silenzio e si inchina per mostrare rispetto al Signore Dio. Solamente
ai teologi, ai rabbini, è consentito pronunciare il tetragramma di Dio
(attuando una interpretazione dal momento che solamente il Sommo Sacerdote
conosceva le vocali che completavano il nome di Dio), e molte volte si
preferisce usare l’appellativo “comune” Adonai (tradotto in italiano con
Signore). La sacralità del nome di Dio si estende poi a tutta la Scrittura, ai
rotoli che vengono custoditi nell’Aròn
hakkodeš, al punto che non è permessa la loro distruzione nemmeno in caso
di usura.
Tornando
all’ambito interpretativo cristiano ci sono due passi del Vangelo, alla luce
dei quali possiamo comprendere maggiormente il secondo comandamento. Il primo
passo si trova nel Vangelo di Matteo:
“Avete
udito che fu detto agli antichi: ‘Non giurare il falso; dà al Signore quello
che gli hai promesso con giuramento’. Ma io vi dico non giurate affatto (…). Il
vostro parlare sia ‘Si, quando è sì; no quando è no”. (Mt 5:33-37)
Con
questo passo del Vangelo possiamo vedere come il giurare in nome di Dio, o
dinnanzi a Dio, costituisca un impegno non solamente con il mondo ma con Dio
stesso: “Gesù insegna che ogni giuramento implica un riferimento a Dio e che la
presenza di Dio e della sua verità deve essere onorata in ogni parola. La
discrezione del ricorso a Dio nel parlare procede di pari passo con
l'attenzione rispettosa per la sua presenza, testimoniata o schernita, in ogni
nostra affermazione”[1].
Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi
esortava a “non giurare né per il
Creatore, né per la creatura, se non con verità, per necessità e con riverenza”[2].
Il secondo passo del Vangelo che può illuminarci, è
il famoso racconto della cacciata dal tempio dei mercati[3]. Raccontato
da tutti e quattro gli evangelisti, esso ci mostra innanzitutto come non
bisogna trasformare il tempio di Dio, la Sua casa, in un mercato poiché è un
luogo di preghiera dove trovare pace. Senza entrare nel dettaglio del brano,
possiamo cogliere il fatto che non pronunciare il nome di Dio invano equivalga
anche a non compiere azioni in suo nome che vadano contro la sua volontà. Le
guerre di religione, il mercanteggiare con e per Dio, non rispondono a ciò che
il Signore ci chiede per essere suoi discepoli. Infatti l’azione di Dio (e di
conseguenza anche le azioni dei suoi discepoli) è mossa non dalla sete di
dominare e soggiogare il mondo, ma dalla volontà di amare le sue creature di un
amore così grande che arriva al dono totale di sé. L’esempio della lavanda dei
piedi, narrata da Giovanni (Gv 13:1-17), e della crocifissione rappresentano il
punto massimo e totale dove l’amore può giungere. Noi siamo amati da Dio
unicamente perché siamo le sue creature, la perfezione del suo creato e non
perché ce lo siamo meritato. Siamo allo stesso tempo invitati a seguire i suoi
insegnamenti (compresi i Comandamenti) perché Lui è Santo: “Siate santi, perché
io il Signore Dio vostro sono santo”[4].
Quello a cui siamo chiamati è renderci sempre e più simili a Dio Padre e niente
di più. Non ci verrebbe chiesto se non fossimo in grado di compierlo.
A questo punto sorge spontanea una domanda: “ma voi
chi dite che io sia?” (Mc 8,29). La domanda che Gesù pone ai suoi discepoli è
ora posta a noi che ci interroghiamo sul significato di questo comandamento. Di
fondo rimane la sacralità del nome che non deve essere violata, per rispetto
alla persona e a ciò che essa rappresenta. Il punto di svolta avviene quando il
nome in questione è quello Dio. Se per il credente rimane ferma la questione
che non deve essere violato, con tutto ciò che comporta tale violazione, perché
dovrebbe essere violata anche dal non credente?
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