FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E UTILITÀ
Di recente sono stato ospite e relatore, presso il Caffè
Filosofico di Crema (CR), associazione culturale cremasca che ha fra i suoi
obbiettivi la promozione della riflessione filosofica verso un pubblico
eterogeneo. Infatti non solo esperti del settore ma anche neofiti,
costituiscono il pubblico che una volta al mese si ritrova per ascoltare uno o
più relatori e discutere insieme le diverse tematiche proposte. Oggetto della
serata da me tenuta era la Filosofia del Linguaggio, e nello specifico la
riflessione operata dal filosofo inglese John L. Austin e la “ripresa”
effettuata dal più noto Paul Ricoeur. In particolare Austin, analizzando il linguaggio ordinario (quello che
quotidianamente noi utilizziamo), giunse a distinguere gli enunciati descrittivi (i più usati dal parlante, perché permettono
di comunicare emozioni, richieste, etc.) dagli enunciati performativi, parole, o frasi (ad esempio “Si lo voglio”
pronunciato durante una cerimonia nuziale) che ci permettono di compiere azioni
(e non descriverle “semplicemente”) mentre pronunciamo le parole di “rito”. Dal
dibattito che è scaturito, una delle domande ha stimolato particolarmente la
mia riflessione: che utilità
(pratica?) può avere la riflessione
filosofica del linguaggio?
La Filosofia del Linguaggio è per diversi motivi, uno degli
ambiti della ricerca filosofica più “oscuro” e sconosciuto al grande pubblico.
Persino nelle Università italiane rimane ai più un settore conosciuto solo
marginalmente. Tralasciando i motivi di questa poca conoscenza (dovuta forse al
fatto che gran parte della riflessione è avvenuta in ambienti anglosassoni e
americani che forse conosciamo poco), vorrei cercare di rispondere alla domanda
che mi era stata posta, cercando così di avvicinare più persone alla Filosofia
del Linguaggio.
Reputo che tre possano essere le "applicazioni
pratiche" delle riflessioni sul linguaggio[1].
1. Da un lato ritengo che i fruitori di una medesima lingua,
sopratutto se è la loro lingua madre, non necessariamente sono in possesso
degli "strumenti adeguati" (non necessariamente grammaticali) per
poter utilizzare adeguatamente le parole e le locuzioni della loro lingua. Al
di là delle regole di sintassi e grammaticali che ovviamente devono essere
seguite, sono necessarie anche altre "regole", altri
"accorgimenti" che ci permettono di conoscere le parole/espressioni
che noi utilizziamo (così da avere, come dice Austin, "strumenti
puliti") e al contempo possiamo sapere "cosa dire e in quale
circostanza" (parafrasando sempre Austin). Non basta infatti sapere come
si deve comporre un enunciato affinché esso sia corretto da un punto di vista
grammaticale e lessicale, bisogna anche sapere “cosa dire e quando dirlo”. La
metodologia di Austin, se all’apparenza può sembrare noiosa, ci fornisce un
sicuro strumento con il quale comprendere anche le diverse situazioni in cui
siamo chiamati ad esprimerci. L’esempio classico che Austin presenta è quello
delle scuse: seguendo una metodologia di ricerca proposta dallo stesso Austin,
che consiste nell’elencare con l’ausilio del vocabolario tutte le parole che
sono collegate al tema delle scuse, noi potremo scoprire che non soltanto i
sostantivi possono e vengono impiegate nelle diverse situazioni di scusa, ma
anche aggettivi, verbi e preposizioni entrano in gioco qualora dobbiamo scusarci[2].
2. Dall'altro canto, l'analisi operata da Austin-Ricoeur per
il fatto che si basa anche sulla riflessione fenomenologica, e proprio
perché parte dall'esperienza del vissuto, ci conduce a riflettere sul nostro
vissuto, sul nostro essere visto in relazione/rapporto al mondo che ci
circonda. Dall’analisi di Austin noi comprendiamo inoltre che pronunciando gli
enunciati performativi noi siamo in grado di modificare il mondo che ci
circonda[3]. Siamo dunque (e al giorno
d'oggi non è cosa da poco) responsabili della nostra parola, di ciò che
pronunciamo. L’utilità in questo caso, sta nel riconoscere un certo grado di
valore morale al nostro atto di parlare.
3. Vi è in fine una terza “applicazione” dell’analisi
linguistica, che potremmo definire “squisitamente” teologica. Per tanto tempo
al testo Sacro ci si è accostati unicamente applicando come unica chiave di
lettura una visione cristologica/teologica. Tale chiave, pur essendo corretta e
fondamentale (per non cadere, a mio avviso, nell'errore compiuto dal saggista
Mauro Biglino, che toglie ogni riferimento a Dio nel testo Sacro[4]) rischia di farci
dimenticare che i passi della scrittura vanno interpretati alla luce anche del
loro contesto, che comprende l'ambiente d'origine e la sensibilità dell'autore.
Così passi come 1Cor 11:3-9 e 1Cor 14:34-35 dove emerge un Paolo fortemente misogino
e il racconto della Genesi (in particolare i capitoli 1-2-3), vanno letti anche
alla luce del tempo e contesto in cui furono scritti. Circa la lettera ai
Corinzi, ad esempio, dobbiamo tenere in considerazione il fatto che è essa, nel
contesto degli scritti paolini, è tra le più adulterate, ovvero è tra quelle
che hanno subito maggiore contaminazione nei vari passaggi degli amanuensi.
Altro esempio è costituito dalla Genesi, la quale come sottolinea uno dei più
importanti esegeti contemporanei il cardinal Gianfranco Ravasi, fu composto da
varie mani e rispecchia almeno due tradizioni diverse. La mia, voglio
sottolineare, non vuole essere un’accusa alle precedenti interpretazioni[5], ma solamente un invito ad
una lettura più attenta ed approfondita del testo Sacro senza cadere né
nell’errore di Biglino, né nel fanatismo religioso.
A conclusione di questo mio intervento a tratti “didattico”
mi auguro che qualcuno possa accostarsi allo studio della Filosofia del
Linguaggio, perché da essa possiamo apprendere molto non solo per quanto
riguarda la parola scritta e pronunciata, ma anche circa noi stessi.
[1] Va sottolineato il fatto che non solo la Filosofia
del Linguaggio, ma anche la Logica e la Linguistica (con gli studi di
Saussere), costituiscono le basi per una scientifica riflessione sul linguggio.
[2]
Si veda in particolare i saggi di John L. Austin che costituiscono un ottima
introduzione al pensiero del filosofo di Oxford, alla Filosofia del Linguaggio
e al pensiero Occidentale in generale.
[3]
Rispetto al “Si lo voglio”, della cerimonia nuziale, noi non ci impegniamo
solamente con il nostro coniuge ma cambiamo anche lo “stato del mondo” che ci
riguarda.
[4]
Mi riferisco qui al saggista e traduttore Mauro Biglino, il quale interpreta il
testo della Bibbia partendo da una traduzione letterale del testo aramaico. Da
tale interpretazione YHWH sarebbe un alieno appartenente alla stirpe degli
Elohim, che diversi secoli fa soggiogarono l’umanità. La Bibbia non sarebbe dunque
un testo sacro ma storico.
[5]
Infatti non si può prescindere da una lettura cristologica della Scrittura, perché
senza di essa non si comprenderebbe l’agire di Dio nel testo, né la tensione
dell’uomo verso Dio.
Commenti
Posta un commento